They already know you
- IL PAMPHLET
- 11 nov 2018
- Tempo di lettura: 4 min
Grandi flussi di informazioni si muovono attraverso la rete, in un’infrastruttura la cui complessità cresce esponenzialmente di giorno in giorno, le cui insidie, sempre più numerose, sono celate agli occhi di molti.

Nel corso della storia si è lungamente discusso in merito a quale possa essere la risorsa che meglio indichi la ricchezza di una società, di un individuo che la detiene. Per secoli si è ritenuta la terra ago della bilancia dedita a misurare la prosperità, prima ancora dell’oro e dei preziosi. In seguito alla seconda rivoluzione industriale i combustibili fossili sono diventati determinanti nella affermazione della potenza economica di un aggregato di individui; nel ventesimo secolo con la diffusione delle società anonime (progenitrici della moderna partecipazione in borsa delle imprese) furono i frammenti cartacei che simboleggiavano la collaborazione nello sviluppo di grandi aziende ad indicare l’influenza di schiere di educati galantuomini. E magari un giorno, si spera assai lontano, questo bene potrebbero diventare gli alberi, le foreste e tutto il verde che quotidianamente viene trattato con una negligenza che si torcerà tutta contro i suoi fautori.
Ma occorre concentrarsi sul presente, proprio per non scivolare inconsapevoli verso un nero futuro: la risposta a questo interrogativo, che probabilmente ebbe origine assieme all’idea stessa di commercio, appare al giorno d’oggi chiara, cristallina: i dati.
La raccolta di informazioni da parte dei fornitori di celebri servizi online e la successiva vendita a terzi di questi ha dato vita ad un mercato al quale nel 2016 IDC, una società di consulenza statunitense, assegnava un valore di 130 miliardi di dollari, con previsioni che collocavano il raggiungimento dei 200 all’inizio del decennio successivo. Ed al contrario di quanto si possa pensare, questo fenomeno è in moto da ben più tempo, trascorrendo un lungo periodo lontano dai riflettori. Quando in aprile l’intero mondo si indignava di fronte allo scandalo di Cambridge Analytica, in cui era coinvolto Facebook, Mark Zuckerberg probabilmente sorrideva all’idea che il mondo avesse impiegato tutto questo tempo a rendersi conto del vero prezzo da pagare per l’utilizzo dei suoi servizi, rivelatisi tutt’altro che gratuiti. Quando il 10 di Aprile il celebre imprenditore si è seduto dinanzi al Congresso Usa per rispondere alle domande dei senatori è immediatamente apparso chiaro quanto poco informati in materia siano coloro che detengono le redini di una delle più potenti nazioni al mondo in merito alla sensibilità di questa problematica: la maggior parte degli interrogativi sono stati per il trentaquattrenne causa di sorpresa per la loro banalità. Criticità che non riguarda unicamente i legislatori americani, bensì anche coloro che la mattina del 25 Maggio sedevano soddisfati sulle poltrone dell’emiciclo di Strasburgo, celebrando l’entrata in vigore della GDPR.
General Data Protection Regulation, questo il nome scelto per la misura che avrebbe dovuto mettere la parola fine all’abuso di potere messo in atto dai titani dell’internet, cui maggior effetto è stato quello di far apparire decine di notifiche di rinnovo de “termini e condizioni d’uso” sul telefono di ogni cittadino dell’Unione Europea. Si perché questo traguardo in materia di tutela della privacy ha effettivamente implementato una sola regolamentazione, quella che impone che la richiesta per il trattamento dei dati sia chiara ed esplicita, ed appaia appena si faccia il primo accesso o la registrazione su ogni sito. Perché un organo legislativo, nazionale o sovranazionale che sia, non può cancellare un business da 130 miliardi di dollari da un giorno all’altro, non può fermare questo innovativo modello di business, con cui l’idea di pagamento in denaro è stata superata; può solo fare in modo che gentilmente si chieda il permesso, all’utente, per fare dei suoi dati ciò che si vuole. E se dinanzi a quella domanda si pone la spunta sul “Non acconsento”, nella quasi totalità dei casi si è costretti ad abbandonare il portale.
Questa condizione è ormai intrinseca nel funzionamento di internet, poiché la mancanza di tempestivi interventi da parte di quegli organi che avrebbero dovuto tutelare i consumatori ha reso tale modus operandi la normalità: è ormai troppo tardi per cancellarlo.
Ma forse non lo è per un’altra grande minaccia che incombe su una realtà che non riesce più a fare a meno della tecnologia, delle comodità che l’avanzamento di questa porta con sé.
Molti produttori di smartphone hanno implementato nei loro flagship software per il riconoscimento facciale, una funzionalità che appena due anni fa sembrava ancora lontana dall’essere fruibile, ma che grazie ad algoritmi in grado di correggersi in autonomia ed imparare dai propri errori ha recenemente raggiunto ottimi livelli di sicurezza. Ed è proprio questo argomento che ha suscitato la preoccupazione di Brad Smith, presidente e CLO di Microsoft, il quale ospite al Web Summit di Lisbona ha avuto modo di confessare al suo interlocutore, l’ex primo ministro inglese Tony Blair, le sue inquietudini.
Egli si è soffermato sulla mancanza di divieti formali rispetto all’implementazione di tale tecnologia nei sistemi di sicurezza, la possibilità che chiunque includa un software di questo genere sulle proprie telecamere, al fine ad esempio di creare un database degli acquisiti e delle preferenze per ogni cliente che entra in un proprio punto vendita.
Certo nel caso in cui si dovesse scoprire che una grande impresa si macchi della vendita di informazioni sensibili quanto queste si urlerebbe allo scandalo, ma molto probabilmente il tutto si concluderebbe solo con una salata contravvenzione (come è successo a Facebook questo aprile); ancora una volta sarebbe troppo tardi per cambiare, e si potrebbe solo ambire a limitare il fenomeno.
È necessario agire preventivamente, e solo con il supporto dei cittadini coloro che si trovano ai vertici avranno modo di comprendere la necessità di fermare l’utilizzo improprio di questi mezzi rivoluzionari.
In una società così profondamente legata al suo passato viene insegnato alle nuove generazioni di non ripetere gli errori del passato, ma in una realtà che evolve così rapidamente diviene necessario cercare una lezione in trascorsi meno lontani di quel che si possa
Alberto Tavini
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