S’è invertita la scacchiera
- IL PAMPHLET
- 31 gen 2019
- Tempo di lettura: 4 min
La scelta da parte di numerosi partiti socialdemocratici progressisti di abbracciare il vento rinnovatore della globalizzazione ha fatto sì che tale fenomeno complesso e dagli effetti tutt’altro che prevedibili, causasse un sovvertimento nelle convinzioni dell’elettorato che sì riconosceva in tale ideologia, con paradossali effetti sul come oggi viene fatta politica.

La sera del 23 giugno 2016, 30 milioni di individui attendevano con il fiato sospeso dinanzi alla televisione un fatidico comunicato; nel frattempo il resto del mondo cercava di tenere a bada la preoccupazione per l’esito di una vicenda che già allora veniva riconosciuta come di fondamentale importanza nei sottili equilibri della politica internazionale. E quando la conferma giunse, in molti ne furono stupiti. In pochi si aspettavano che il popolo inglese fosse così sprovveduto, incapace di gettare un occhio al proprio futuro, e a quello delle sue nuove generazioni. Mentre i soddisfatti erano convinti che quello sarebbe stato un ritorno ai fasti del grande Impero Britannico, che per secoli era stato guida del mondo, molti altri concludevano che con questo atto l’unione dei tre paesi anglofoni stendeva testamento. Il 51.9% della popolazione si dichiarava favorevole ad un abbandono dell’Unione Europea, percepita come la demoniaca entità che privava della sua forza economica la nazione, impedendole di sfruttare a pieno il suo potenziale, e le imponeva di sottostare alle decisioni prese da altri; lei che per secoli aveva regnato incontrastata. E mentre il 29 marzo 2019, data in cui la rottura tra le due parti diventerà una concreta realtà, si avvicina, risulta chiaro come i difensori di questa scelta avessero sottovalutato le sue conseguenze. Theresa May, che il giorno dopo il voto, a seguito delle dimissioni di David Cameron dalla leadership del Conservative Party si propose come la “donna forte” che avrebbe riportato la GB ai fasti di un tempo, si trova oggi in grande difficoltà. La attuale Prime Minister ha resistito ad una mozione di sfiducia mossa direttamente dal partito che un tempo la scelse come sua campionessa, ma ha comunque accusato il duro colpo della bocciatura della sua proposta di accordo con l’UE il 15 del mese corrente.
Da allora sono state ampliamente discusse le problematiche concernenti la frattura, oltre che gli effetti che questa avrà sui paesi con i quali la sua forza motrice intrattiene stretti rapporti. D’altro canto la lente di ingrandimento non è stata posta sufficientemente a lungo sul perché un così elevato numero di residenti della grande isola a nord del vecchio continente pose la croce sul Leave stampato su quella storica scheda. Il giudizio della stampa estera, così come delle più variegate fazioni politiche nei confronti del popolo inglese si è attestato principalmente su due posizioni, quella che riteneva tali individui dei forti, fieri della loro bandiera, e quella che li bollava come incoscienti, incapaci di pensare ai vantaggi che l’unione commerciale e l’abbattimento dei confini donava, in particolare per le generazioni a venire.
Questo manicheismo nell’interpretazione delle cause del fenomeno ha fatto sì che la vera causa che mosse molti individui a scegliere l’isolamento, la chiusura, restasse oscura agli occhi di gran parte degli esterni alla vicenda. In Inghilterra queste ragioni hanno radici profonde, che scavano nella realtà storica fino al periodo in cui alla guida del paese vi era l’unica altra donna ad aver mai occupato la poltrona della May, Margaret Tatcher. Erano i primi anni ottanta e il neoliberismo, fratello maggiore della globalizzazione, muoveva i primi passi, dando il via a quel processo irreversibile che avrebbe radicalmente cambiato il rapporto con il lavoro di milioni di individui. Paul Mason, giornalista e saggista, fornisce l’esempio degli operai della città di Leigh, da cui lui proviene, che proprio in quel periodo vide la maggiore industria della zona, la Coles Cranes, mandare a casa tutti i suoi dipendenti in nome della delocalizzazione in Polonia. D’improvviso, una gran numero di individui si trovava privato di ciò che più determinava la propria identità, ovvero l’essere “fieri operai”, prima ancora che “fieri inglesi”. E le numerose mani che con un segno sulla carta entrarono a far parte di quel 52% sentivano tutto il peso di avvenimenti simili a questo. Fu il timore che la Gran Bretagna si sarebbe svuotata delle sue occasioni di lavoro a determinare una vittoria così schiacciante, non l’idea che fosse da preservare l’identità nazionale inglese.
Ed è per questa stessa ragione che molti partiti di destra nazionalista, che si battono per l’adozione di misure tutt’altro che a favore della piccola borghesia e della classe operaia (basti pensare alla Flat Tax, centrale per il programma della Lega, oppure all’abolizione dell’Obamacare, ossessione di Trump), stiano riscontrando in queste due fasce di elettorato un consenso tutt’altro che trascurabile. Le sinistre progressiste di numerosi paesi hanno scelto ormai da lungo tempo di abbracciare la globalizzazione, il suo potere innovatore, centrale per lo sviluppo economico, dimenticando di tenere a bada il suo pericoloso familiare. Questo sottovalutare i downsides dell’apertura dei mercati ha fatto sì che il suo diffondersi portasse ad una situazione in cui l’ideologia che un tempo tutelava i lavoratori fornisse al proprio avversario il modo di privarla di questa centrale parte di elettorato. Perché sono numerosi, i piccoli imprenditori e professionisti, come i dipendenti del secondario e terziario, che temono l’arrivo del prossimo grande colosso estero che li privi dei mezzi di sostentamento. Ad una certa età si ambisce a tranquillità e sicurezza, e non si avvertono così positivamente gli effetti della libera circolazione di merci e persone. Ed è per questo che la closure proposta dalle destre nazionaliste è, paradossalmente, una migliore interprete della classe lavoratrice di quanto lo sia “la sinistra”, la quale, puntando lo sguardo al futuro, era scesa a patti con politiche liberiste i cui effetti devastanti hanno causato la perdita di fiducia, nella corrispondente ideologia.
Slogan come “Make America Great Again” e “Prima gli italiani” sono ampolle che modellano la mancanza di forma di sentimenti diffusi: non solo quello che il cittadino (nel senso legale del termine) debba essere privilegiato rispetto dello straniero, ma anche quello che il lavoratore, che sia statunitense, italiano o di qualsiasi altra nazionalità, debba essere difeso dal mostro della concorrenza estera, che diventa sempre più minaccioso man mano che la globalizzazione abbatte barriere e confini.
Alberto Tavini
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