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L'ELLISSE PERDERA' UN FUOCO

  • Immagine del redattore: IL PAMPHLET
    IL PAMPHLET
  • 12 set 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Nel precario oscillare degli equilibri geopolitici sembra ora conformarsi un interessante disegno, che vede gli Stati Uniti allontanarsi sempre più dalla vetta, e la Cina scalarla rapidamente, scuotendo le salde convinzioni del mondo Occidentale.



È ancora oggi molto diffusa tra i cosiddetti Westerners una visione ellittica dell'economia mondiale, secondo la quale gli Usa e l'Europa costituiscono i fuochi della figura geometrica, ed il resto del mondo si dispone sulla curva, dipendente dai punti occupati dalle nazioni dell'Occidente. Dopotutto basti pensare che nel 2015, in un'inchiesta della Banca Mondiale figurava che questi due poli, che rappresentano solo il 13.5% delle terre emerse, consumavano insieme il 45% del petrolio adibito alla produzione elettrica, che ad oggi è ancora la risorsa più utilizzata nel settore.

Ma come ogni fenomeno, gli equilibri economici sono soggetti al cambiamento, al progresso, e mai quanto adesso questa convinzione dovrebbe essere messa in discussione proprio da coloro che hanno la fortuna di vivere in queste regioni privilegiate.

Con America First e le connesse politiche protezionistiche, Trump sta privando gli Stati Uniti del ruolo di guida dell'economia globale, nella convinzione che la vastità dell'arsenale nucleare basti per rimanere la prima potenza del nostro fragile pianeta.

Il presidente cinese Xi Jinping, ha definito queste scelte un “Chiudersi in un armadio al buio”, senza fare diretto riferimento all'eccentrico imprenditore dalla bionda chioma. Ed è proprio la vasta Repubblica Popolare a volersi imporre come nuovo faro dell'economia mondiale: da anni ormai la grande potenza orientale ha smesso di essere celebre per l'export di giocattoli ed utensili a basso costo che venivano poi sequestrati per la presenza di vernici tossiche, in favore di merce di qualità, quale la buona tecnologia a prezzi competitivi.

Un chiaro esempio di ciò è dato dal mercato degli smartphone: nel primo quarto del 2018 le tre cinesi Huawei, Xiaomi e OPPO (proprietaria di Oneplus) detenevano insieme il 25% dello share globale di vendite, superate solo dalle storiche Samsung (che è Sudcoreana) ed Apple; e si tratta di numeri destinati a crescere ancora.

Ed il partito unico sta investendo non poco, per creare rapporti internazionali e favorire gli scambi, anche al di fuori del suo territorio: €5.16 miliardi per favorire la circolazione dei treni nel Laos (parte di una rete che collega 8 altre nazioni), altri 3.4 per una rete ferroviaria elettrificata che collega il Djibouti alla capitale d'Etiopia, ben 39 al Pakistan, principalmente per le centrali nucleari destinate ad interrompere le continue mancanze di elettricità nel paese.

Il tutto parte del One Belt, One Road Initiative, un piano di investimento destinato a raggiungere il bilione di dollari (€860 miliardi), annunciato nel 2013 ed i cui frutti hanno iniziato a far scalpore nel 2017.

Comprendente quasi sessanta nazioni (tra cui spicca la mancanza dell'India, altro paese in forte crescita), apporta benefici da entrambi i lati: la Cina, in surplus di beni come l'acciaio ed il cemento, crea domanda per questi, evitando di rallentare la produzione, ed impone la concessione degli appalti di costruzione a sue imprese anche fuori dai confini, generando occupazione per la propria popolazione, mentre i paesi coinvolti ottengono prestiti a tasso conveniente senza peraltro l'imposizione di vincoli militari.

Nonostante ciò vi è chi manifesta dubbi sulla validità del progetto, tra questi Moody's, la rinomata agenzia di rating statunitense, la quale nel 2015 affermò con convinzione l'impossibilità da parte del 60% delle nazioni che avevano aderito di ripagare per tempo i debiti da contrarre con il colosso. Inoltre Il governo di Pechino doveva essere necessariamente conscio che non tutti i prestiti sarebbero stati ripagati quando lanciò la proposta, ma la possibilità di instaurare solidi rapporti diplomatici con i paesi coinvolti supera in valore la perdita di modeste quantità di denaro (se rapportate alla spesa pubblica della nazione). Ed in ogni caso la ritrattazione degli accordi può portare interessanti vantaggi, come nel caso dello Sri Lanka, che per porre rimedio all'incapacità di ripagare un debito annuo pari al suo totale ricavo, ha ceduto direttamente alle autorità cinesi il controllo, tramite un contratto della durata di 99 anni, di uno dei suoi maggiori porti sull'Oceano Indiano, centrale per gli scambi con l'intero Sud-Est Asiatico.

Ed è così che superata la metà del 2018 il mondo osserva la sua maggiore nazione socialista, celebre per la forte intromissione statale non solo in economia, ma anche nella vita privata dei suoi cittadini, farsi portavoce della “Globalizzazione 2.0”, in uno strano capovolgimento del consueto ordine delle cose. E chissà, magari un domani saremo noi Europei gli stranieri non voluti, costretti a emigrare in una terra con un alfabeto, una cultura e delle abitudini ben diverse da quelle cui siamo comodamente abituati.


Alberto Tavini

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