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La dura vita del reporter

  • Immagine del redattore: IL PAMPHLET
    IL PAMPHLET
  • 3 gen 2019
  • Tempo di lettura: 4 min


Di notizie dal nostro paese e dal mondo ne sentiamo ogni giorno, ogni ora, ogni secondo, ogni qual volta che accendiamo la tv, apriamo l’internet, sfogliamo il giornale.

Guerre in Medio Oriente, tensioni politiche latinoamericane, rivolte e attentati in Francia e si potrebbe proseguire ad oltranza, siamo sommersi da eventi.

Ci si pongono domande, nascono dibattiti, si aprono discussioni, da un tema si sfocia ad un altro.

Ma ci capita mai di pensare a chi c’è dietro queste informazioni?

Chi le raccoglie? Chi le scrive? Chi scatta le fotografie?

Chi sono questi reporter? Che vita conducono? Q anti rischi si assumono quotidianamente per fare il loro lavoro?

Il reportage è, per definizione, il servizio giornalistico di un cronista, corrispondente o inviato speciale. Questo significa che dietro alla narrazione di un conflitto, di un evento di attualità o di un’inchiesta c’è un giornalista, magari su suolo straniero, che fotografa la guerra in prima persona. Si tratta di un lavoro sul campo, un lavoro in prima linea.

Ed ad essere così esposti, si sa, i rischi che si corrono sono elevatissimi.

Basti pensare a Robert Capa (1913-1954), fotografo ungherese che ha immortalato la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la seconda guerra mondiale (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954) e che ha sacrificato la sua vita sui fronti più caldi del mondo e, come lui molti altri, per amore della verità.

Va citata Ilaria Alpi (1961-1994) fotoreporter italiana del TG3, assassinata a Mogadiscio durante il periodo della guerra civile somala.

La sua non è stata una morte qualsiasi, un danno collaterale come un altro.

Alpi si è ritrovata in Somalia un po’ per caso. Per il giornale si occupava d’altro, non aveva esperienza diretta alle spalle la prima volta che mise piede nell’ex colonia italiana.

Seguì le nostre truppe nella missione umanitaria Restore Hope delle Nazioni Unite per stabilizzare il paese devastato da una carestia. Sul posto iniziò delle inchieste che si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane. La giornalista avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali.

Le indagini sulla sua morte non hanno mai avuto una conclusione e nel luglio 2017 la procura di Roma ha chiesto di archiviare l'inchiesta.

Ma il suo non è un caso isolato.

Basti ricordare la giornalista russa Anna Politkovskaja (1958-2006), assassinata nell'ascensore del suo palazzo.

Molto nota per il suo impegno sul fronte dei diritti umani, per i suoi reportage dalla Cecenia e per la sua opposizione al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, la Politkovskaja ha sempre cercato la verità, ma sulla sua morte non ci sono state mai risposte. Il mandante e l'esecutore sono ancora oggi sconosciuti: voci non confermate imputano il delitto proprio al presidente Putin, più volte bersaglio di pesanti critiche da parte della giornalista. Secondo fonti dell'intelligence la giornalista era su una lista di persone scomode da eliminare assieme all’agente segreto Alexander Litvinenko e al politico Boris Berezovski, effettivamente poi eliminati in circostanze mai chiarite ed altri attualmente sotto protezione in Europa.

Tornando in Italia, abbiamo la storia di Domenico Quirico (1951-), altro giornalista di guerra che scrive per La Stampa di Torino.

Quirico si è interessato, fra le altre cose, agli avvenimenti scoppiati fra il 2010 e il 2011 conosciuti come Primavere arabe.

Questo interesse gli è costato due rapimenti: un primo breve in Libia nel 2011, il secondo, più lungo, in Siria nel 2013. E’ stato poi liberato grazie ad un intervento dello stato italiano. Una volta libero ha girato assieme a Paola Piacenza Ombre dal fondo, un documentario in cui ripercorre la sua prigionia in Siria. Accusato molto spesso di fare un giornalismo “ottocentesco e ormai superato”, fa della sua presenza sul campo un punto di forza, in tempi in cui le guerre sono molto spesso raccontante a chilometri di distanza dal fronte.

Nei suoi scritti ricorre spesso il tema del male, che lo spinge a rincorrerlo e a cercarlo nelle guerre di tutto il mondo.

Male che molto spesso è l’unica via per sopravvivere, per non essere vittime a propria volta.

“La necessità di raccontarlo è qualcosa di più importante della paura”.

E’ molto legato a quella che lui stesso definisce l’obbligatorietà del racconto.

“Cosa c’è di più giornalistico, se non raccontare cosa è accaduto, essere lì e sentire le voci delle persone. Non riesco a dimenticare il dolore e coloro che ci si sono immersi dentro”.

Per il giornalista di guerra si pone anche il problema del suo coinvolgimento emotivo: egli deve rimanere osservatore imparziale dei fatti a tempo pieno, o in determinati casi può interrompere il corso della storia e intervenire? I

Su questo il giornalista Peter Arnett (1934-), figura emblematica del National Geographic e voce predominante della Guerra del Vietnam (1955-1975) e del Golfo (1990-1991), ha una posizione irremovibile.

È famoso l’episodio particolare in cui un monaco buddhista per protesta si diede fuoco davanti alla sua macchina fotografica.

“Come essere umano- confida- volevo intervenire, come reporter non potevo. Se avessi cercato sarei stato coinvolto direttamente nelle vicende politiche vietnamite. Il mio ruolo di reporter ne sarebbe uscito distrutto, assieme alla mia credibilità”.

Quello del reporter -soprattutto di guerra- non è un mestiere da tutti.

Un po’ come quanto vale per la professione del chirurgo, sarebbe persino pericoloso imbarcarsi in un’attività del genere senza una dose sufficientemente alta di sangue freddo e una quasi perfetta gestione dell’emotività.

Probabilmente bisognerebbe anche effettuare dei controlli psico-fisici prima di essere ammessi come reporter.

In ogni caso sono da ammirare queste grandi personalità che sono disposte a mettere in gioco la loro vita per uno scopo universale quale il raggiungimento della verità.

Perché, proprio come ha affermato la Politkovskaja : «L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.»


Iris D'Aversa

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